Riposa in pace amore mio

lunedì 30 marzo 2015

Vorrei

Vorrei illuminare
la tua mente stanca,
consolare
la tua anima mesta,
prendere
i tuoi pensieri tristi
e portarli
lontano da ogni memoria.
Immergiti
nel mare immenso del mio amore
e fatti cullare
fino al completo oblio.
La vita è dolce ed amara,
lo sai:
viviamola insieme,
abbracciati fino alla fine

domenica 29 marzo 2015


Ho salvato solo la storia, non mio figlio

E' molto schiva con tutti. Ormai in pensione da alcuni anni, si reca al bar tutte le mattine a fare colazione prestissimo, proprio per incontrare meno gente possibile, non amando fare amèna conversazione su argomenti di nessuna importanza, tipica delle persone superficiali che non hanno niente da dire.
Con gli occhi intelligenti di chi ha scrutato tutto per tutta la vita, osserva i passanti che spesso indifferenti non la degnano neanche di uno sguardo
che noti l'estrema tristezza di quella donna, una delle più importanti archeologhe viventi in Italia.
Eppure lei avrebbe potuto vantarsi di aver contribuito, con i suoi studi ed il suo operato, a salvare gran parte della storia antica dell'Italia e del mondo.
A pochi è consentito di rimanere a bocca aperta quando , dimostrando una cultura enciclopedica, illustra le meraviglie dell'antichità di tutto il mondo che lei ha contribuito a far venire alla luce. E mentre parla, i suoi occhi si illuminano per un attimo per poi subito dopo sprofondare nella tristezza di sempre. Aveva contribuito con l'impegno di tutta una vita a salvare la storia, ma non era riuscita ,anche se con un impegno di gran lunga maggiore , a salvare suo figlio !
Dopo il matrimonio con un professore universitario aveva desiderato ardentemente un figlio, ma non essendoci riuscita aveva pensato di adottarlo, nonostante il parere contrario del marito.
Le avevano segnalato il caso di un bambino di cinque anni , già rifiutato da due famiglie, che aveva assistito insieme alla sorella maggiore alla morte dei genitori naturali per overdose. Un caso difficile, quasi disperato, ma lei sia per il suo grande desiderio di maternità, sia per la naturale attrazione nei confronti di situazioni complicate da districare, aveva raccolto la sfida, nonostante il rifiuto del marito e i tentativi di dissuaderla dall'adozione da parte delle assistenti sociali.
Svolte le pratiche per l'adozione, lei si era buttata a capofitto in questa nuova avventura, la più difficile e la più disperata di tutta la sua ricca esistenza, per salvare quel bambino, “suo figlio”, dal baratro di quel destino , purtroppo già segnato dalla morte dei genitori. Un figlio che non voleva essere adottato da nessuno, men che meno da lei!
Il contributo del marito all'educazione di quel bambino difficile si era limitato all'insegnamento del greco antico, che aveva imparato a parlare con estrema facilità, mentre al contrario non riusciva né a scrivere né a parlare correttamente l'italiano. Dopo pochi anni, rendendosi conto delle difficoltà a rapportarsi con un figlio difficile che contestava tutti e tutto e, purtroppo, anch'egli vittima della droga (che la sorella stessa ahimè gli forniva), egli aveva pensato bene di abbandonare al loro destino moglie e figlio per ritornare a vivere nella sua vecchia casa con la madre e la sorella, tipico di chi in realtà seppur a tarda età si rifiuta ancora di crescere.
Ma lei non si voleva arrendere per nessun motivo, peregrinando da un neuropsichiatra all'altro perchè voleva salvare suo figlio ad ogni costo, anche se tutti riconoscevano l'inutilità di qualsiasi tentativo.
Poi, un giorno, la resa di entrambi. Lo avevano trovato morto, completamente solo, anche lui per overdose, lo stesso tragico destino dei suoi genitori naturali. E alla vista di quel giovane corpo esanime, freddo, anche lei ha smesso di lottare per sopravvivere, nonostante abbia eroicamente combattuto e vinto finanche il cancro negli anni precedenti.
Seduta sola al bar alle prime ore del mattino, con lo sguardo perso nel vuoto,ora sembra solo attendere che la “Signora della Morte” venga finalmente a prenderla per accompagnarla , chissà dove, dal suo amato bambino.

sabato 28 marzo 2015

La pescatrice di sogni

Nelle società antiche gli anziani con la loro esperienza e saggezza rappresentavano un riferimento fondamentale . Le decisioni importanti venivano prese dai collegi degli anziani e non si poteva prescindere dal loro parere.
Con il tempo i vecchi sono divenuti “antichi”, antiquati, da combattere, da emarginare, misconoscendo tutto il loro bagaglio culturale e la saggezza di vivere, un contributo importante e insostituibile.
Passeggiando sulla riva di un lago la mattina molto presto, si può scorgere in lontananza una figura possente con indosso un grembiulone di plastica bianca su un barcone mentre issa le reti da pesca. Impossibile da lontano capire se si tratti di un uomo o una donna , giovane o anziano. Finito di issare le reti, la barca viene diretta alla riva, attraccata al molo. Da essa con un passo sicuro scende una donna.
Ha più di ottant'anni, capelli d'argento, occhi vivaci e intelligenti, bei lineamenti del viso, un corpo possente.
Da sessant'anni si alza alle due di notte per andare a pescare nel lago, fino a dieci anni prima con suo marito che le ha insegnato il mestiere subito dopo il matrimonio, poi, a causa di una grave malattia che lo ha condannato a letto, da sola, ultimamente aiutata a volte dal figlio e dal nipote.
E pare che ogni volta che getta le reti nel lago voglia pescare non solo pesci, ma anche i suoi sogni di ragazza dispersi nell'acqua, di una vita senz'altro più agiata e serena di quella che in realtà ha condotto e che soprattutto conduce, dal momento che, finita la pesca quotidiana e consegnato il pesce in pescheria, torna a casa per accudire il marito gravemente ammalato.
Non si lamenta mai, anzi riesce finanche a trovare il lato tragicomico della sua situazione personale scherzando con il figlio ed il nipote quando la accompagnano a pescare di notte.
La pescatrice riprende a sognare quando, fissandole da un balcone, butta giù le reti da riparare. Con mani veloci ed esperte passa il filo che chiude le maglie strappate da chissà quale pesce che abbia tentato la fuga, ma è come se lei cucendo voglia racchiudere in un mondo segreto tutti i bei ricordi della sua vita passata, in cui con suo marito si godeva il paesaggio notturno di quel lago stupendo e al chiarore della luna pescava i suoi pesci e i suoi sogni di ragazza prima e di giovane mamma poi.
Sa bene di essere l'ultima donna pescatrice di quel lago, ma non si vanta mai di questo. Se necessario per mandare avanti la famiglia, dice a se stessa prima che agli altri, si deve fare questo ed altro senza lamentarsi mai, perchè lamentarsi è solo una perdita di tempo e non serve a risolvere i veri problemi della vita che va avanti, corre anzi, e dopo non c'è più tempo utile per correre ai ripari. Perle di saggezza!
Già, cara pescatrice, si perde troppo tempo a lamentarsi nella vita, non considerando mai che ci sono situazioni più tristi , misere e complicate delle nostre, vissute però con maggiore discrezione e grande dignità come la tua.
Oltre alla pesca di lago, mi hai insegnato a vivere le mie difficoltà con coraggio e dignità e ad apprezzare le piccole cose della vita quotidiana . Grazie!




Com'è difficile

Com'è difficile
accettare sé stessi,
lasciarsi attraversare
dal proprio fango,
dalle proprie brutture
e non giudicarsi.

Com'è difficile
cessar di dare
la colpa agli altri
del proprio dolore
e continuare a vivere


nonostante tutto!

Una vita senza suoni, senza voci

Esce tutte le mattine dalla casa che lo ospita insieme ad altri sfortunati come lui.
Inconfondibile il suo abbigliamento stravagante: un enorme berretto con la visiera calata fin quasi sopra il naso, camicia di pizzo bianca, pantaloni rossi attillati e scarpe nere con il tacco alto . Lineamenti grotteschi, sembra uscito da un libro di favole. Di lui si dicono cose tremende, che sia stato un violento, forse finanche un assassino. La gente del posto non tollera la sua omosessualità e lui non può raccontare nulla di sé, né difendersi in alcun modo,essendo sordomuto fin dalla nascita.
A peggiorar le cose un orribile scherzo della natura, un meningoencefalocele enorme sulla fronte grande quanto un'arancia che lui tiene gelosamente nascosto con quell'enorme cappello sempre calato sul naso.
Ferma i passanti per strada chiedendo qualche moneta per un caffè o le sigarette
emettendo suoni gutturali di varia tonalità. E quando riceve l'agognata moneta, la sua grottesca faccia si allarga in un enorme sorriso in cui compare un dente solo nell'arcata inferiore, accompagnato da un urlo di soddisfazione.
Ma sono pochissime le persone che non lo evitano, la sua bruttezza, la sua omosessualità, il suo sordomutismo danno fastidio, sono quasi un insulto per la piccola società che lo circonda.
E quando la mattina presto si sveglia e si affaccia dal balcone della stanza in cui vive quasi tutta la giornata, se riconosce uno dei suoi rari benefattori per strada, si sbraccia e urla per salutarli con un grande sorriso mettendo bene in mostra il suo unico dente, quasi a voler significare che non li saluta solo quando ha bisogno di soldi per il caffè o le sigarette.
Se inoltre incontra qualcuno in difficoltà si ferma e facendosi capire chiaramente con la sua tragicomica gestualità, cerca di capirne il motivo e offre il suo aiuto o tenta di consolare a modo suo l'interlocutore con delle delicate pacche sulle spalle o prendendogli il viso con le sue mani deformate dall'artrosi.
Ma lui non è stato mai consolato quando si nascondeva per non essere visto con quel bozzo sulla fronte, né è stato mai difeso per il suo sordomutismo e la sua omosessualità. Tutta la sua vita si è dovuto nascondere, vivere chiuso in una stanza per non offendere la sensibilità e lo sguardo dei benpensanti, per i quali le persone come lui non dovrebbero neanche esistere o sarebbe meglio farle sparire.
In una sorta di nazismo moderno, più delicatamente ridefinito darwinismo sociale in cui non si usano più le camere a gas per eliminare chi contamina la purezza della società moderna ma l'indifferenza e l'incuria, i diversi e gli inutili della società , non produttivi,devono assolutamente sparire. Quale sistema migliore per liberarsi di questi soggetti indesiderati, allontanarli, dimenticarli, non prendersene affatto cura in alcun modo al punto di far loro desiderare la morte?
E allora quanto maggior valore acquista nel povero sordomuto dall'unico dente
quella delicata pacca sulla spalla e la grossolana carezza sul viso di chi a suoi occhi sta soffrendo, anche se certamente meno di lui !



Appestati

Poche persone volevano varcare la soglia di quel cancello. Nonostante sia migliorata l'informazione , l'AIDS fa ancora paura, molti temono di contagiarsi respirando la stessa aria o semplicemente toccando la pelle o gli indumenti di chi per sua sfortuna ne è affetto.
Oltre quel cancello vi era una casa famiglia per malati di AIDS in fase conclamata, cioè quelli condannati a morte due volte, dalla malattia e dalla società che non li vuole neanche vedere, gli appestati della società moderna.
Senza neanche riconoscergli più neanche la dignità di persone , sono solo omosessuali, tossicodipendenti, prostitute che in fondo se la sono cercata, senza neanche dare loro il beneficio del dubbio che alcuni anni fa né la malattia né le modalità del contagio fossero conosciute così bene come adesso per poter prendere le dovute precauzioni ,pur volendo mantenere lo stesso stile di vita.
Solo l'amore e la dedizione di alcune suore, di un ex-terrorista in regime di semilibertà e di pochi ma tenaci volontari riuscivano a prolungare la vita interiore e fisica di quei ragazzi (sì, proprio ragazzi) che piano piano si stavano spegnendo lentamente come esili candele.
La loro giornata era scandita dalle visite in ospedale e dalle terapie. Le fleboclisi rappresentavano l'aspetto più doloroso, vista la difficoltà sempre maggiore di trovare vene idonee, quasi tutte erano infatti trombizzate o infiammate, quindi inutilizzabili. E non sempre la sofferenza fisica veniva accettata in silenzio e dignitosamente. A volte, per alcuni sempre più spesso con l'avanzare della malattia, crisi di rabbia e di disperazione erano un appuntamento fisso nella giornata, seguite poi da un silenzio tombale.
In questa atmosfera di morte colpiva l'atteggiamento sereno e affettuoso di uno degli ospiti che si avvicinava e con dolcezza e triste serenità consolava il disperato di turno. Eppure anche lui sapeva di avere i giorni contati, ma aveva deciso di affrontare la sua fine con una calma e una saggezza tipica delle persone anziane, a volte anche con un sottile velo di ironia.
Eppure la sua vita precedente non era stata certo tranquilla. Fin da ragazzino si era reso conto della sua omosessualità, naturalmente osteggiata dalla sua famiglia. Per tale motivo era fuggito di casa e per vivere aveva incominciato a prostituirsi. La sua bellezza alla David Bowie aveva fatto innamorare parecchi uomini di lui che gli avevano regalato una bella vita, permettendogli di realizzare il suo sogno di fare il costumista teatrale, lavoro per il quale era molto stimato, ma anche quello di procurarsi facilmente eroina e cocaina per sballarsi nei momenti di noia e di solitudine. Un giorno , nel pieno della sua attività, una brutta polmonite lo fa finire in ospedale dove gli comunicano la terribile diagnosi: AIDS in fase conclamata.
Quando raccontava la sua vita non c'era rimpianto né disperazione, era come se stesse parlando di un'altra persona. Si trasformava durante il periodo di carnevale, entusiasmandosi nel confezionare con le sue mani esperte dei bellissimi costumi per tutti, ospiti e volontari, persino le suore.
Aveva una parola buona per chiunque e incantava gli stessi volontari con la sua incredibile saggezza e ironia sulla vita , su sé stesso e la sua malattia, tant'è che in molti lo cercavano per chiacchierare con lui e persino confidargli i loro problemi di persone normali.
Quando è morto, sereno persino negli ultimi momenti della sua esistenza, tutti lo hanno pianto come un fratello, un grande amico, un esempio per chiunque lo abbia conosciuto. Per loro lui non è stato affatto solo un appestato.


venerdì 27 marzo 2015



Uscire dentro, entrare fuori

Piano piano prendo coscienza del mio stato: sono legata a letto dalle solite fasce di contenzione, da poco hanno finito di farmi l'elettrochoc, sono tutta sudata, ho un terribile mal di testa e mi sono fatta tutto addosso, neanche mi hanno pulita.
Sono solo un caso clinico su cui sperimentare ancora l'efficacia di un trattamento prima obsoleto, ora ripristinato per i casi più gravi.Non sono più un essere umano, non ho più identità, men che meno dignità; finito il trattamento non conto più nulla.
Tanto vale che mi liberi di queste “amorevoli” cure fingendo di essere completamente guarita. Medici, infermieri parlano, parlano, ma di me, di chi sono veramente e che cosa voglio non hanno capito proprio nulla.
Luminari che si riempiono la bocca di termini difficili per sembrare importanti
agli occhi dei pazienti e degli ingenui parenti, pronti a dilapidare fortune pur di farti guarire o al contrario “sparire” . Perchè la malattia mentale ancora spaventa e non si vuol vedere, neanche conoscere, per curarla davvero.
E quando pensano che sei fuori di testa, magari solo disperato o arrabbiato per come vieni trattato, ti schiaffano un ago in vena per “abbatterti” con un neurolettico, senza neanche farti parlare o spiegare.
E se pensano che sei pericoloso per te stesso o per gli altri ti imprigionano in un reparto psichiatrico con tanto di sbarre alle finestre, tanto per chiarirti che solo con la reclusione e il sonno puoi guarire. In realtà è la società che ti nasconde perchè non ti vuole vedere, non vuole vedere come ti ha ridotto con la sua indifferenza e la sua crudeltà.
Sei un rifiuto, incominciando dalla tua famiglia, da chi ti ha generato, perchè non voleva figli o non voleva un maschio o una femmina, o l'ennesimo scomodo figlio da sfamare e da accudire.E incominci a sentirti diverso, ma solo perchè non amato e accettato. E allora che fai? Diventi il migliore studiando tutto lo scibile umano per raggiungere le mète più ambite, oppure il peggiore, un somaro a scuola, un disadattato nella vita solo per attrarre l'attenzione, in un patetico tentativo di ricevere l'amore che purtroppo nessuno ti da.
Provi anche a divorare di tutto, o a non mangiare per giorni e giorni, fino a rischiare la vita, per la fame insaziabile, lacerante di amore.
Ma diventi solo un problema, uno scomodo problema, senza più soluzione per cui vai tolto letteralmente di mezzo con la reclusione psichiatrica.
Ma anche da ricoverato dai fastidio, meglio farti dormire, nutrirti con le fleboclisi (neanche tante, altrimenti aumentano i costi), e se tenti di fuggire da quell'incubo ti legano a letto. Magari se se lo ricordano ti mettono anche un pannolone per non dover cambiare troppo spesso le lenzuola, e se sei sveglio si dimenticano pure di darti da bere e da mangiare.Perchè sei un malato di mente, non conti più nulla, sei solo un problema per tutti, in un modo o nell'altro devi soltanto sparire, magari per sempre.
E allora dentro di te avviene la fuga da tutto, dal mondo che non ti ama, che non ti ha mai voluto perchè sei diverso, “un invalido di cervello”, la fuga dalla vita stessa, che ti ha tolto tutto, finanche la gioia di viverla.E precipiti inesorabilmente nel tuo buco nero dal quale non vuoi uscire più.
E questi saccenti signori in camice bianco che circondano il letto sul quale sono stata “legata” per proteggermi (non ho mai capito da chi e da cosa, forse da loro?) , mi dichiarano finalmente guarita grazie alle loro “amorevoli” cure, senza aver capito proprio nulla di me!

La percezione del dolore

Come viene percepito il dolore fisico e morale da se stessi e dagli altri?
Ognuno di noi ha una propria soglia del dolore. Ci sono gli stoici che sopportano perfettamente qualsiasi dolore fisico, altri addirittura svengono alla minima stimolazione dolorosa. Persone ipersensibili soffrono incredibilmente per qualsiasi situazione di disagio, altri sopportano eroicamente qualsiasi sventura capiti nella loro vita.
Spesso tra persone che affrontano in maniera diversa un dolore fisico o morale si erge un invisibile muro di incomprensione e incompatibilità, come una manichea suddivisione tra buoni e cattivi, sensibili ed insensibili. Ancora non si comprende che il dolore fisico e interiore sono assolutamente indivisibili e coesistono sebbene in proporzioni diverse nelle varie circostanze della vita.
Spesso chi circonda persone che soffrono non si rende affatto conto di ciò,
accusando di esagerare chi manifesta il proprio dolore fisico per una causa minima in maniera troppo evidente. Spesso si tratta di subdole richieste di attenzione e di aiuto che sottendono ad un grave disagio interiore ed esistenziale.
Al contrario vi sono persone, provate già molto nella loro vita, che sopportano stoicamente il proprio dolore fisico, la cui sottovalutazione può addirittura portare a diagnosi fin troppo tardive di malattie estremamente gravi.
Le malattie psicosomatiche offrono una vasta gamma di esempi nei quali la sofferenza interiore si esprime con malattie a carico di vari organi ed apparati.
Cefalea muscolotensiva, gastrite, tachicardia e dolori anginosi, colon irritabile, ipertensione arteriosa, anoressia e bulimia , asma bronchiale, neoplasie possono, anche se non sempre , essere espressione a lungo termine di un disagio psichico più o meno grave che va comunque individuato e se possibile risolto, per evitare complicanze irreversibili delle patologie da esso provocate. Ormai è noto il rapporto causa effetto dello stress sull'abbassamento delle difese immunitarie, anche se non è corretto attribuire solo allo stress la causa di qualsiasi malattia.
Per questo motivo sarebbe necessaria una ottima preparazione psicologica del personale sanitario per impostare un adeguato rapporto con il malato che soffre, attualmente molto carente e lasciata spesso all'iniziativa e alla sensibilità individuale. Come pure sarebbe obbligatorio introdurre un esame psicoattitudinale prima dell'ammissione ai corsi universitari di Medicina e Chirurgia , di Scienze Infermieristiche e similari per verificare se oltre alle capacità tecniche e la preparazione teorica dei candidati ci sia anche una predisposizione psicologica all'ascolto e all'aiuto di chi soffre. Si potrebbero evitare molti errori diagnostici e terapeutici dovuti alla sottovalutazione o alla sopravalutazione del sintomo “dolore”, con conseguente vantaggio sia per il malato che per la spesa sanitaria in generale.
Sarebbe inoltre auspicabile educare proprio i bambini all'aiuto ed all'ascolto di chi soffre, creando le basi per un mondo qualitativamente migliore. Esperienze giovanili di volontariato all'interno degli ospedali, case-famiglia, mense per i poveri potrebbero essere una valida alternativa, o per lo meno il valido completamento di una vita interamente trascorsa solo sui libri, o per strada, in discoteca, o persa nelle droghe d'abuso.
Un mondo veramente civile si deve creare necessariamente con l'educazione dei giovanissimi e non con la repressione, spesso tardiva e inefficace, delle persone ormai divenute adulte e purtroppo indifferenti.

giovedì 26 marzo 2015


Animali; malattia e disabilità

Nessuno può capire fino in fondo la sensibilità e la capacità di aiuto di un animale nei confronti di un malato o un disabile se non lo ha vissuto in prima persona e questo non riguarda solo i comuni animali domestici, cani e gatti.
E lo scambio vicendevole e continuo di affetto ed attenzioni può davvero aiutare un malato od un disabile a soffrire in maniera meno lacerante la propria condizione , anche se disperata.
Iniziando dal valido aiuto prestato dai cani ai non vedenti, ben presto psicologi e medici hanno potuto verificare l'incredibile effetto terapeutico della compagnia di animali su vari tipi di patologie sia infantili che dell'età adulta.
I social network arricchiscono la letteratura esistente di esperienze condotte da persone in difficoltà aiutate in qualsiasi modo da animali diversi: cani, gatti, cavalli, uccelli, balene, delfini ed altri.
Tra l'animale ed il malato si instaura un vero e proprio rapporto simbiontico: ognuno si prende cura dell'altro e si preoccupa per l'altro, condividendo finanche il reciproco stato d'animo nelle situazioni più difficili.
Per chi ha dimestichezza con gli animali ciò non dovrebbe assolutamente sorprendere, conoscendo già in condizioni normali la capacità di sentimenti (oggi confermata anche scientificamente) di questi nostri amici che non aprrezziamo mai abbastanza.
Attualmente oltre all'annullamento della restrizione che impediva agli animali domestici l'ingresso nei locali pubblici, molti alberghi e spiagge sono state attrezzate per ospitare animali domestici . Inoltre in alcuni paesi del mondo è permesso l'ingresso dei cani anche negli ospedali e non solo quelli che accompagnano i non vedenti, sebbene questi abbiano avuto da sempre l'autorizzazione ( quasi mai rispettata) di entrare ovunque.
I benefici della PET-therapy sono stati studiati e confermati: miglioramento del tono dell'umore e dell'attenzione, stimolo al movimento ed alla parola, miglioramento della coordinazione motoria e dell'equilibrio , socializzazione. Ma purtroppo i costi da sostenere per addestrare un animale a saper interagire in maniera positiva con un malato o disabile sono ancora eccessivamente elevati, tenendo conto che le persone da aiutare non sono per la maggior parte dei casi in grado di lavorare e le pensioni di invalidità, di recente ulteriormente ridotte, non permettono neanche di provvedere al sostentamento del solo malato, men che meno dell'amico animale.

Molti animali vengono maltrattati ed abbandonati al loro tragico destino, alcuni di questi finiscono reclusi in canili, gattili o soppressi o mandati al macello come accade ai cavalli. Parecchi sono docili ed affettuosi, nonostante il trattamento ingiusto subìto proprio dall'uomo. E non sono poche le esperienze incredibili e commoventi narrate da chi , in difficoltà, viene aiutato e ripagato continuamente con immenso amore e dedizione da animali salvati da una fine atroce, dimostrando in tal senso una capacità di altruismo e gratitudine spesso superiore, senza retorica, a quella degli esseri umani. Anzichè condannarli a morte o tenerli reclusi a vita potrebbero essere dati in affido a malati o disabili con una riduzione sensibile dei costi per il loro mantenimento ( o soppressione) e dell'addestramento. 

La diagnosi

Comunicare o ricevere la comunicazione di una diagnosi grave è estremamente difficile, devastante per chi la riceve. La legislazione odierna non permette più di nascondere ad un paziente la diagnosi della propria malattia quando la prognosi è infausta, per cui non sono consentite doppie certificazioni a riguardo, una destinata allo sfortunato del tutto falsa, l'altra consegnata di nascosto al parente pietoso per le necessarie pratiche burocratiche.
Nonostante negli ospedali si faccia a volte ricorso ad uno psicologo di sostegno (spesso figura unica per un intero nosocomio!) e per quanto possa essere delicata l'informazione fornita al paziente, la comunicazione di una diagnosi grave viene comunque percepita come un vero e proprio tornado nella propria vita.
Certo, per un malato che soffre da tempo, che viene sottoposto a molteplici accertamenti diagnostici, che non avverte benefici dalle terapie prescritte, la diagnosi finale viene accolta come la conferma di un dubbio sempre più insistente che il silenzio pietoso dei parenti più prossimi tenta di ritardare il più possibile.
Diverso il caso di persone giovani che in pieno benessere hanno un malore più o meno grave e ricevono la sorprendente notizia dopo gli accertamenti diagnostici eseguiti d'urgenza.
Purtroppo oggi il personale sanitario non sempre è preparato psicologicamente a trattare i malati gravi. Molto spesso il distacco emotivo (che sovente rasenta una vera e propria freddezza) dimostrato da medici o chirurghi è esso stesso causa di devastazione della psiche del malato al quale viene comunicata la diagnosi. I sanitari motìvano il loro atteggiamento come una autodifesa dall'eventuale coinvolgimento emotivo e dal conseguente burn out, non rendendosi conto che è proprio il rapporto empatico con chi soffre l'àncora di salvezza di alcuni pazienti che posti di fronte ad una diagnosi terribile, rifiutano persino di curarsi affrettando l'ineluttabile fine.
I viaggi della speranza, le cure alternative (per chi se li può permettere al giorno d'oggi) sono anche conseguenza diretta di un modo freddo, asettico e commerciale di gestire a vari livelli la sanità. I sanitari umani ed emotivamente generosi che “sanno mettersi in gioco” anche con malati difficili, sono purtroppo l'eccezione e non la regola e per questo messi in continua difficoltà dal sistema vigente e persino emarginati dagli stessi colleghi, rappresentanti di una medicina supertecnologica che bada più ai risultati statistici che alla qualità della vita dei pazienti.
Una volta appresa la terribile diagnosi le reazioni possono essere molteplici: disperazione (fino al suicidio), depressione, rabbia, preoccupazione per la famiglia, paura della sofferenza fisica e della eventuale mancanza di autonomia. Tutte reazioni influenzate anche dal diverso comportamento degli eventuali familiari, se esistenti o “presenti”.
Non sempre un parente sa reagire in maniera adeguata alla malattia di un proprio congiunto. Non si può mai essere sufficientemente preparati psicologicamente ad una diagnosi terribile come un tumore maligno o una malattia degenerativa invalidante o alle conseguenze gravi di eventi ictali o di politraumi. Spesso il parente sottovaluta la gravità della malattia o sopravvaluta le proprie capacità di aiuto, non rendendosi quasi mai conto che un malato non può “ mai” ragionare come una persona perfettamente sana, specie se si rende conto della ridotta aspettanza di vita o della progressiva limitazione della propria autonomia. E sia il malato che il parente rifiutano spesso il supporto psicologico di figure professionali appositamente preposte, senza contare il generale “isolamento” in cui consciamente o inconsciamente il malato grave viene inesorabilmente condannato dalla società. La malattia grave fa ancora paura, perchè si ha paura generalmente della morte e della invalidità. E non sempre le associazioni di volontariato riescono efficacemente a colmare questo enorme vuoto esistenziale.
La società moderna , supertecnologica e salutista, completamente dissociata dalla realtà, non viene educata alla profonda conoscienza della malattia , della limitazione dell'autonomia che ne consegue e soprattutto della morte.
Ci immaginiamo tutti eterni e biologicamente perfetti, non considerando che iniziamo a morire fin dal primo giorno della nostra vita e che come qualsiasi apparecchiatura supertecnologica possiamo “romperci” e non funzionare più.
La scienza studia il segreto della eterna giovinezza, ma spesso dimentica che un cervello perfettamente funzionante anche in tarda età può coesistere con un corpo devastato da malattie invalidanti e viceversa il corpo in ottime condizioni di una persona anziana può coesistere con un cervello completamente sovvertito da malattie degenerative che impediscono una normale e serena vita di relazione.

Più che studiare come prolungare ad ogni costo la sopravvivenza degli essere umani sarebbe più opportuno migliorare in ogni senso, fisico, psicologico, sociale ed economico, la qualità della vita in senso lato, qualsiasi sia la sua durata.

Il commiato

Diversi sono i comportamenti possibili quando un malato si rende conto dell'ineluttabilità di una fine prossima.
Alcuni si disperano per i più svariati motivi: paura della morte (in realtà paura della sofferenza fisica in concomitanza del trapasso), dolore per il distacco dagli affetti di una vita, preoccupazione sul destino dei propri familiari specie se troppo giovani o non indipendenti economicamente.
Altri cercano di “godersi la vita “ il più possibile, magari ( se le possibilità economiche lo permettono) facendo un viaggio, l'ultimo con la persona amata o con la famiglia al completo. Altri ancora cercano di riallacciare legami affettivi precedentemente logorati.
Altri ancora preferiscono un progressivo isolamento, quasi una preparazione interiore al distacco definitivo dal mondo. Riordinano meticolosamente le loro cose, rievocando i ricordi di tutta una vita, predispongono tutto quanto possa servire anche successivamente alla loro dipartita.
Naturalmente ciò è possibile fin quando è preservata almeno per un poco la propria autonomia.
Nel caso di persone gravemente invalidate e molto sofferenti tutto ciò è impossibile, costretti ad un forzato allettamento e letteralmente a subire tutto e tutti passivamente. Curanti formali e frettolosi (non solo per esigenze lavorative ma anche incredibilmente per paura della morte), infermieri non sempre amorevoli, energici e sbrigativi, personale addetto alle pulizie (nosocomiali o, se esistenti ,domestici) a volte eccessivamente rigido e distaccato. Tutto ciò contribuisce ad aumentare nel povero moribondo, se ancora cosciente, la propria angoscia, il proprio senso di solitudine esistenziale di fronte alla morte, anche in presenza di parenti.
A proposito di parenti, anche in questo caso ne esistono diverse tipologie.
Vi sono quelli “presenti” nel vero senso del termine, coinvolti fin dall'inizio dalla malattia del loro congiunto, operosi, responsabili e amorevoli , disposti ad “accompagnare” fino alla fine soffocando la loro disperazione . Ma purtroppo sono sempre più rari.
Vi sono quelli presenti solo per salvare le apparenze, desiderosi in realtà di una rapida conclusione della “ loro” fatica assistenziale, che a volte mascherano il loro disinteresse affettivo nei confronti di chi muore con una ossessiva ricerca di eventuali carenze assistenziali per nascondere le proprie colpevoli carenze affettive.
Infine, triste a chi capita, vi sono i parenti completamente assenti, giudici inesorabili o colpevoli imperdonabili pure in punto di morte , a seconda delle eventuali faide familiari.
Non ci sono istruzioni per l'uso da offrire a chi muore. Certo, la saggezza e la cultura darebbero la consapevolezza che in realtà si inizia a morire fin dal primo giorno di vita: l'imperfettibilità del corpo umano sarebbe già da sola sufficiente a spiegare le malattie e la morte. La speranza della cessazione di qualsiasi sofferenza (fisica e morale) potrebbe infondere serenità a chi se ne stà andando, anche a chi è attaccato morbosamente alla vita e non ha alcun credo religioso. La disperazione (comprensibilissima) dei parenti rende paradossalmente più difficile e sofferto il trapasso -distacco , proprio perchè irreversibile.
E dopo la morte del congiunto non è permesso neanche concentrarsi sul ricordo della persona scomparsa. Troppe incombenze: vestizione, onoranze funebri, sepoltura con relative spese (sempre fin troppo onerose),il commiato di parenti e amici,risoluzione di eventuali problemi economici per la sopravivenza, tutte quante sviliscono il dolore, se presente, del distacco.
Solo dopo l'assolvimento di questi compiti il parente affezionato può riprendere coscientemente a soffrire e a rendersi veramente conto dell'assenza definitiva della persona amata. E l'elaborazione del lutto non è sempre facile, a volte è finanche impossibile per tutta la vita.


Forzata rinuncia all'intimità e al pudore

Quando si perde la propria autonomia si è costretti pure a rinunciare alla propria intimità personale.
Il disagio che si prova quando un compagno di vita o un genitore o un figlio si occupa dell'igiene personale di chi non è più in grado di provvedere a sé stesso viene avvertito molto più acutamente e dolorosamente quando si perde il controllo delle funzioni sfinteriche al difuori delle mura domestiche e diventa devastante quando persone totalmente estranee si fanno carico di questa mansione.
Spesso nei reparti ospedalieri dove più persone coabitano nella stessa stanza, le pulizie igieniche vengono effettuate privando il malcapitato della privacy necessaria, in quanto non vengono posizionati (se ovviamente presenti) né paraventi né altri presidi (tende o porte scorrevoli) che possano alleggerire il disagio del malato , spesso sottovalutato dal personale sanitario.
A nessun malato cosciente della propria disabilità , pur dotato della massima capacità di comprensione e pazienza, fa piacere che chiunque, parenti prossimi compresi, violi la propria intimità personale. Ma molto spesso chi aiuta persone non autonome si dimentica di considerare questo aspetto particolare della vita , preso più dalla praticità della assistenza che dalle sue modalità.
Altre situazioni in cui forzatamente si perde la propria intimità sono le visite collegiali mediche, chirurgiche e ginecologiche, in cui il personale sanitario, studenti compresi si avvicendano sul malato che non sempre mentalmente è disposto ad offrire il proprio corpo sofferente per il bene della scienza. Una preliminare e accurata valutazione psicologica del paziente potrebbe ovviare a questo tipo di “violenza” che poco opportunamente si perpetua sui malati ricoverati, specie nelle strutture universitarie, dove la curiosità scientifica spesso calpesta indiscriminatamente il pudore dei più deboli senza verificarne la loro effettiva disponibilità.
Quindi non basta mai, e non deve bastare mai, la disponibilità all'aiuto di parenti, infermieri e badanti nei confronti delle persone non più autonome come non basta e non deve bastare mai la capacità diagnostica e terapeutica del personale sanitario se è totalmente disgiunta dal rispetto del pudore di chi è malato e/o non è più autonomo.
Il malato non autonomo o chi si sottopone a visite od a accertamenti diagnostici non è solo più fragile fisicamente ma molto di più psicologicamente rispetto ad una persona sana e di questo se ne rendono contro ben poche persone, anche se per motivi professionali interagiscono quotidianamente con chi suo malgrado non può sottrarsi a qualsiasi forma di aiuto. E purtroppo a tutt'oggi non esiste una adeguata preparazione umana e professionale che ne tenga conto .

Dare voce ai vinti

Dare finalmente voce
ai vinti della terra
e ascoltarli con cuore puro
e la mente dei giusti.
Non c'è diversità nei
tristi eventi della vita,
nè nelle gioie profonde.
E il tempo prezioso perso
nell'odio di chi s'illude
di aver vinto solo
la breve battaglia
di una fugace vita


non torna più...

mercoledì 25 marzo 2015

Disabile

Sessant'anni fa sua madre, pur abitando vicino ad un grosso ospedale di una grande città, decise di partorirlo a casa. Qualcosa andò storto, un travaglio troppo lungo, un parto asciutto, il cordone ombelicale intorno al collo. Nacque cianotico e il suo cervello soffrì, tant'è che crebbe spastico con una debolezza più evidente agli arti di destra. Per fortuna la sua intelligenza non fu minimamente compromessa. A scuola andava bene, anche se sia i suoi compagni di classe che alcuni insegnanti avevano erroneamente associato la sua disabilità fisica a un ritardo mentale del tutto inesistente.
A sedici anni perse a breve tempo di distanza entrambi i genitori. Per un po' visse a casa della sua sorellastra, più grande di dodici anni, figlia della prima moglie del padre morta di parto. Poi entrò in un collegio per disabili, nel quale si rese conto di essere quello più fortunato di tutti perchè autonomo. Completò gli studi fino al diploma. Ma non era soddisfatto. Voleva dimostrare a tutti che nonostante la sua disabilità era in grado di raggiungere gli stessi traguardi degli altri.
Grazie a lavori saltuari si mantenne all'università, prima iscrivendosi alla facoltà di legge, poi trovò finalmente la sua strada iscrivendosi alla facoltà di medicina. Anche nell'ambiente medico non si resero subito conto della sua notevole intelligenza, credendo erroneamente che la sua disabilità fisica fosse anche mentale. Quando era emozionato o in difficoltà i suoi disturbi motori peggioravano moltissimo e questo problema aggravava la sua posizione di tirocinante in ospedale. Per non parlare del suo rapporto disastroso con il mondo femminile!
Ma ben presto sia i professori che i colleghi, che all'inizio si divertivano alle sue spalle e soprattutto a metterlo in difficoltà in ogni modo, si resero conto delle capacità intellettive e diagnostiche di quello studente modello che pur lavorando riuscì a laurearsi a pieni voti con una tesi riguardante proprio le lesioni cerebrali da parto distocico.
Dopo la laurea la specializzazione in Medicina Legale in cui si dimostrò veramente portato, divenendo anche un punto di riferimento per altri colleghi medico-legali nell'ambito universitario.
Nel frattempo riuscì anche a sposarsi ed ad avere una figlia , ma nonostante questo non era ancora soddisfatto di sé stesso. L'ambiente universitario non gli piaceva più, voleva fare qualcosa di meglio e di più per gli altri in difficoltà.
Ed ecco la svolta: decise di fare il medico di famiglia, ma non dietro la scrivania a scrivere le ricette e basta, ma il vero medico che visita tutti e se necessario va anche a casa dei pazienti in difficoltà.
Una volta presentata la domanda e i suoi numerosi titoli accademici, gli venne assegnato una località di provincia da condividere con altri colleghi. Il primo impatto fu devastante: la gente del posto era rimasta disorientata dai suoi problemi motori che però non gli avevano impedito di guidare una macchina predisposta per i disabili, ma alla fine si era ricreduta dopo aver constatato la professionalità, la cortesia e soprattutto l'umanità di quel bravo medico che non si negava mai, nemmeno per le visite domiciliari quando venivano richieste anche all'ultimo momento.
Una guerra aperta venne fatta invece dai suoi colleghi i quali non tardarono a giungere pure a diffamarlo per la sua disabilità, insinuando una insufficienza mentale inesistente.
Ma il costante impegno di quel medico alla fine ebbe la meglio. Nonostante avesse chiesto il trasferimento in un paese vicino, tutti i suoi vecchi pazienti non lo vollero affatto abbandonare, anche a costo di raggiungerlo con i mezzi pubblici in quel suo nuovo studio sempre pieno di gente, soddisfatta per come veniva curata e seguita da quel bravo medico. Il mio.


Accettare, accettarsi

Accettare una grave malattia o disabilità, elaborare il lutto della perdita della propria vita di prima, normale, accettare sé stessi ed una vita nuova, diversa e non certo migliore. Accettare come rassegnarsi al proprio ineluttabile destino.
Riconoscere che non esiste più una vita “normale” (per alcuni non è mai esistita) e ci si trova in una situazione di dipendenza fisica e psicologica dagli altri.
Tutti si sentono in dovere di dire qualcosa: “ Fatti forza, devi accettarlo, è la volontà di Dio, pensa a quelli che stanno peggio di te, ci sono tante altre cose belle da fare nella vita, in fondo sei ancora vivo, respiri, hai un cervello che funziona”. Ma è proprio la capacità di ragionamento a rendere difficile l'accettazione del proprio stato, della perdita della propria autonomia e dignità o di una prospettiva di vita, specialmente se fino al momento di ammalarsi la vita di prima era molto gratificante sotto ogni aspetto. E purtroppo ben pochi hanno la capacità di saper ascoltare davvero chi soffre, che pian piano si rinchiude in se stesso.
La totale o parziale dipendenza dagli altri negli spostamenti, pulizie personali, vestizione, alimentazione, la perdita del lavoro con conseguente perdita della propria indipendenza economica che consenta di attingere nel privato fonti adeguate di aiuto (assistenza medica, infermieristica, fisioterapica, personale, riservati ormai solo a pochi privilegiati), che sopperiscano almeno in parte alle enormi carenze del pubblico (non sufficientemente colmate dalle organizzazioni di volontariato), i costi elevati di tutti gli ausili sanitari, compresi quelli atti all' abbattimento delle barriere architettoniche, completano il tragico quadro.
E' veramente molto difficile accettare la propria malattia o disabilità se dal punto di vista pratico essa è complicata da continui ostacoli, sovente insormontabili.
Anche la fede, che potrebbe rappresentare un valido aiuto nel processo di accettazione della propria sventura, non permette di raggiungere sempre adeguate certezze nella vita di coloro che per il resto non ne hanno più nessuna.
E non sempre le figure religiose che a volte si avvicendano al capezzale di chi è molto provato dalla propria condizione riescono ad infondere coraggio o serenità. Non tutti sono disposti ad accettare, nella imperfezione della malattia, di essere stati creati ad immagine e somiglianza di Dio, sinonimo di perfezione, ad accettare la malattia o la disabilità come prova, a concepire la sofferenza (specialmente se si è fin troppo giovani) come elemento di purificazione e di salvezza della intera umanità, a credere in un aldilà privo di sofferenza in cui il proprio corpo devastato risusciterà intatto e soprattutto sano.
Accorgersi giorno dopo giorno della progressione della propria malattia, in cui si accumulano più sconfitte nella propria quotidianità che piccole vittorie, è qualcosa di indicibilmente devastante e nessuno sfogo di rabbia o di pianto potrà esprimere cosa realmente si prova a chi, anche con tutto l'amore e la sensibilità e comprensione possibili, vive accanto ad un malato grave.
E questa assente o incompleta comprensione l'uno dell'altro erge un muro invisibile di incompatibilità che si esprime con una malsopportazione reciproca, malcelata da una parte con il senso del dovere ( o autoconvinzione all'amore o salvaguardia delle apparenze) , dall'altra dalla necessità assoluta di essere aiutato.
In questo marasma esistenziale, di disperazione, di buio assoluto esistono barlumi di speranza e di attaccamento alla vita, anche se non sempre sufficienti.
Soffermarsi a guardare un tramonto o le bellezze che la natura offre continuamente, leggere, ascoltare musica, comunicare tramite i social networks, adottare un animale cui affezionarsi e di cui prendersi cura sono forme alternative di attaccamento alla vita, non sempre riconosciute da chi è sano.
C'è un limite del tutto individuale tra il sopportabile e l'insopportabile per ciò che riguarda il dolore, la sofferenza e la perdita della dignità e non tutti sono disposti a pagare il medesimo prezzo pur di rimanere in vita.
Vivere non è soltanto mantenere una attività respiratoria (anche artificiale) o cardiaca. Vivere è pensare, comunicare, agire, relazionarsi con il mondo esterno. E non tutti sono disposti a rinunciare ad una di queste espressioni di vita pur di esistere. Ciò va accettato a prescindere dalle proprie convinzioni filosofiche e religiose e va assolutamente rispettato da una comunità che si voglia definire “civile”.
E la rinuncia alle cure poposte in assenza di una dimostrata efficacia, va ugualmente rispettata.
Scelte estreme ( come ad esempio l'eutanasia “attiva”) dovrebbero essere sempre considerate in singoli casi solo come unica alternativa ad una irrisolvibile sofferenza da malattia assolutamente priva di prospettive di guarigione. Anch' esse dovrebbero essere rispettate e non stigmatizzate o peggio perseguite, come accade purtroppo ancora oggi.


E' giunto il tempo

E' giunto il tempo di amare,
di guardarsi negli occhi,
di prendersi per mano.

E' giunto il tempo di vivere,
di camminare insieme,
di essere felici.

E' giunto il tempo di stupirsi,
di godere delle bellezze del mondo,
di ritornare bambini.

E' giunto il tempo di invecchiare insieme,
di ricordare il nostro amore,

di viverlo fino alla fine.

Quadri di Antonella Rizzo






Ebbene si, ho vissuto

Ebbene sì, ho vissuto:

tra le vette più eccelse
e le profondità abissali,
tra gloria e disonore,
amore e disprezzo.

Ebbene sì, ho vissuto:

ho dato e ricevuto
gioia e dolore, bene e male,
nulla davvero nella vita
mi è stato risparmiato.

Ebbene sì, ho proprio vissuto!






fotografie astratte di Antonella Rizzo