Accettare
una grave malattia o disabilità, elaborare il lutto della perdita
della propria vita di prima, normale, accettare sé stessi ed una
vita nuova, diversa e non certo migliore. Accettare come rassegnarsi
al proprio ineluttabile destino.
Riconoscere
che non esiste più una vita “normale” (per alcuni non è mai
esistita) e ci si trova in una situazione di dipendenza fisica e
psicologica dagli altri.
Tutti
si sentono in dovere di dire qualcosa: “ Fatti forza, devi
accettarlo, è la volontà di Dio, pensa a quelli che stanno peggio
di te, ci sono tante altre cose belle da fare nella vita, in fondo
sei ancora vivo, respiri, hai un cervello che funziona”. Ma è
proprio la capacità di ragionamento a rendere difficile
l'accettazione del proprio stato, della perdita della propria
autonomia e dignità o di una prospettiva di vita, specialmente se
fino al momento di ammalarsi la vita di prima era molto gratificante
sotto ogni aspetto. E purtroppo ben pochi hanno la capacità di saper
ascoltare davvero chi soffre, che pian piano si rinchiude in se
stesso.
La
totale o parziale dipendenza dagli altri negli spostamenti, pulizie
personali, vestizione, alimentazione, la perdita del lavoro con
conseguente perdita della propria indipendenza economica che consenta
di attingere nel privato fonti adeguate di aiuto (assistenza medica,
infermieristica, fisioterapica, personale, riservati ormai solo a
pochi privilegiati), che sopperiscano almeno in parte alle enormi
carenze del pubblico (non sufficientemente colmate dalle
organizzazioni di volontariato), i costi elevati di tutti gli ausili
sanitari, compresi quelli atti all' abbattimento delle barriere
architettoniche, completano il tragico quadro.
E'
veramente molto difficile accettare la propria malattia o disabilità
se dal punto di vista pratico essa è complicata da continui
ostacoli, sovente insormontabili.
Anche
la fede, che potrebbe rappresentare un valido aiuto nel processo di
accettazione della propria sventura, non permette di raggiungere
sempre adeguate certezze nella vita di coloro che per il resto non ne
hanno più nessuna.
E
non sempre le figure religiose che a volte si avvicendano al
capezzale di chi è molto provato dalla propria condizione riescono
ad infondere coraggio o serenità. Non tutti sono disposti ad
accettare, nella imperfezione della malattia, di essere stati creati
ad immagine e somiglianza di Dio, sinonimo di perfezione, ad
accettare la malattia o la disabilità come prova, a concepire la
sofferenza (specialmente se si è fin troppo giovani) come elemento
di purificazione e di salvezza della intera umanità, a credere in un
aldilà privo di sofferenza in cui il proprio corpo devastato
risusciterà intatto e soprattutto sano.
Accorgersi
giorno dopo giorno della progressione della propria malattia, in cui
si accumulano più sconfitte nella propria quotidianità che piccole
vittorie, è qualcosa di indicibilmente devastante e nessuno sfogo di
rabbia o di pianto potrà esprimere cosa realmente si prova a chi,
anche con tutto l'amore e la sensibilità e comprensione possibili,
vive accanto ad un malato grave.
E
questa assente o incompleta comprensione l'uno dell'altro erge un
muro invisibile di incompatibilità che si esprime con una
malsopportazione reciproca, malcelata da una parte con il senso del
dovere ( o autoconvinzione all'amore o salvaguardia delle apparenze)
, dall'altra dalla necessità assoluta di essere aiutato.
In
questo marasma esistenziale, di disperazione, di buio assoluto
esistono barlumi di speranza e di attaccamento alla vita, anche se
non sempre sufficienti.
Soffermarsi
a guardare un tramonto o le bellezze che la natura offre
continuamente, leggere, ascoltare musica, comunicare tramite i
social networks, adottare un animale cui affezionarsi e di cui
prendersi cura sono forme alternative di attaccamento alla vita, non
sempre riconosciute da chi è sano.
C'è
un limite del tutto individuale tra il sopportabile e
l'insopportabile per ciò che riguarda il dolore, la sofferenza e la
perdita della dignità e non tutti sono disposti a pagare il medesimo
prezzo pur di rimanere in vita.
Vivere
non è soltanto mantenere una attività respiratoria (anche
artificiale) o cardiaca. Vivere è pensare, comunicare, agire,
relazionarsi con il mondo esterno. E non tutti sono disposti a
rinunciare ad una di queste espressioni di vita pur di esistere. Ciò
va accettato a prescindere dalle proprie convinzioni filosofiche e
religiose e va assolutamente rispettato da una comunità che si
voglia definire “civile”.
E
la rinuncia alle cure poposte in assenza di una dimostrata efficacia,
va ugualmente rispettata.
Scelte
estreme ( come ad esempio l'eutanasia “attiva”) dovrebbero
essere sempre considerate in singoli casi solo come unica alternativa
ad una irrisolvibile sofferenza da malattia assolutamente priva di
prospettive di guarigione. Anch' esse dovrebbero essere rispettate e
non stigmatizzate o peggio perseguite, come accade purtroppo ancora
oggi.