Riposa in pace amore mio

giovedì 26 marzo 2015

La diagnosi

Comunicare o ricevere la comunicazione di una diagnosi grave è estremamente difficile, devastante per chi la riceve. La legislazione odierna non permette più di nascondere ad un paziente la diagnosi della propria malattia quando la prognosi è infausta, per cui non sono consentite doppie certificazioni a riguardo, una destinata allo sfortunato del tutto falsa, l'altra consegnata di nascosto al parente pietoso per le necessarie pratiche burocratiche.
Nonostante negli ospedali si faccia a volte ricorso ad uno psicologo di sostegno (spesso figura unica per un intero nosocomio!) e per quanto possa essere delicata l'informazione fornita al paziente, la comunicazione di una diagnosi grave viene comunque percepita come un vero e proprio tornado nella propria vita.
Certo, per un malato che soffre da tempo, che viene sottoposto a molteplici accertamenti diagnostici, che non avverte benefici dalle terapie prescritte, la diagnosi finale viene accolta come la conferma di un dubbio sempre più insistente che il silenzio pietoso dei parenti più prossimi tenta di ritardare il più possibile.
Diverso il caso di persone giovani che in pieno benessere hanno un malore più o meno grave e ricevono la sorprendente notizia dopo gli accertamenti diagnostici eseguiti d'urgenza.
Purtroppo oggi il personale sanitario non sempre è preparato psicologicamente a trattare i malati gravi. Molto spesso il distacco emotivo (che sovente rasenta una vera e propria freddezza) dimostrato da medici o chirurghi è esso stesso causa di devastazione della psiche del malato al quale viene comunicata la diagnosi. I sanitari motìvano il loro atteggiamento come una autodifesa dall'eventuale coinvolgimento emotivo e dal conseguente burn out, non rendendosi conto che è proprio il rapporto empatico con chi soffre l'àncora di salvezza di alcuni pazienti che posti di fronte ad una diagnosi terribile, rifiutano persino di curarsi affrettando l'ineluttabile fine.
I viaggi della speranza, le cure alternative (per chi se li può permettere al giorno d'oggi) sono anche conseguenza diretta di un modo freddo, asettico e commerciale di gestire a vari livelli la sanità. I sanitari umani ed emotivamente generosi che “sanno mettersi in gioco” anche con malati difficili, sono purtroppo l'eccezione e non la regola e per questo messi in continua difficoltà dal sistema vigente e persino emarginati dagli stessi colleghi, rappresentanti di una medicina supertecnologica che bada più ai risultati statistici che alla qualità della vita dei pazienti.
Una volta appresa la terribile diagnosi le reazioni possono essere molteplici: disperazione (fino al suicidio), depressione, rabbia, preoccupazione per la famiglia, paura della sofferenza fisica e della eventuale mancanza di autonomia. Tutte reazioni influenzate anche dal diverso comportamento degli eventuali familiari, se esistenti o “presenti”.
Non sempre un parente sa reagire in maniera adeguata alla malattia di un proprio congiunto. Non si può mai essere sufficientemente preparati psicologicamente ad una diagnosi terribile come un tumore maligno o una malattia degenerativa invalidante o alle conseguenze gravi di eventi ictali o di politraumi. Spesso il parente sottovaluta la gravità della malattia o sopravvaluta le proprie capacità di aiuto, non rendendosi quasi mai conto che un malato non può “ mai” ragionare come una persona perfettamente sana, specie se si rende conto della ridotta aspettanza di vita o della progressiva limitazione della propria autonomia. E sia il malato che il parente rifiutano spesso il supporto psicologico di figure professionali appositamente preposte, senza contare il generale “isolamento” in cui consciamente o inconsciamente il malato grave viene inesorabilmente condannato dalla società. La malattia grave fa ancora paura, perchè si ha paura generalmente della morte e della invalidità. E non sempre le associazioni di volontariato riescono efficacemente a colmare questo enorme vuoto esistenziale.
La società moderna , supertecnologica e salutista, completamente dissociata dalla realtà, non viene educata alla profonda conoscienza della malattia , della limitazione dell'autonomia che ne consegue e soprattutto della morte.
Ci immaginiamo tutti eterni e biologicamente perfetti, non considerando che iniziamo a morire fin dal primo giorno della nostra vita e che come qualsiasi apparecchiatura supertecnologica possiamo “romperci” e non funzionare più.
La scienza studia il segreto della eterna giovinezza, ma spesso dimentica che un cervello perfettamente funzionante anche in tarda età può coesistere con un corpo devastato da malattie invalidanti e viceversa il corpo in ottime condizioni di una persona anziana può coesistere con un cervello completamente sovvertito da malattie degenerative che impediscono una normale e serena vita di relazione.

Più che studiare come prolungare ad ogni costo la sopravvivenza degli essere umani sarebbe più opportuno migliorare in ogni senso, fisico, psicologico, sociale ed economico, la qualità della vita in senso lato, qualsiasi sia la sua durata.

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