Comunicare
o ricevere la comunicazione di una diagnosi grave è estremamente
difficile, devastante per chi la riceve. La legislazione odierna non
permette più di nascondere ad un paziente la diagnosi della propria
malattia quando la prognosi è infausta, per cui non sono consentite
doppie certificazioni a riguardo, una destinata allo sfortunato del
tutto falsa, l'altra consegnata di nascosto al parente pietoso per le
necessarie pratiche burocratiche.
Nonostante
negli ospedali si faccia a volte ricorso ad uno psicologo di sostegno
(spesso figura unica per un intero nosocomio!) e per quanto possa
essere delicata l'informazione fornita al paziente, la comunicazione
di una diagnosi grave viene comunque percepita come un vero e proprio
tornado nella propria vita.
Certo,
per un malato che soffre da tempo, che viene sottoposto a molteplici
accertamenti diagnostici, che non avverte benefici dalle terapie
prescritte, la diagnosi finale viene accolta come la conferma di un
dubbio sempre più insistente che il silenzio pietoso dei parenti più
prossimi tenta di ritardare il più possibile.
Diverso
il caso di persone giovani che in pieno benessere hanno un malore
più o meno grave e ricevono la sorprendente notizia dopo gli
accertamenti diagnostici eseguiti d'urgenza.
Purtroppo
oggi il personale sanitario non sempre è preparato psicologicamente
a trattare i malati gravi. Molto spesso il distacco emotivo (che
sovente rasenta una vera e propria freddezza) dimostrato da medici o
chirurghi è esso stesso causa di devastazione della psiche del
malato al quale viene comunicata la diagnosi. I sanitari motìvano il
loro atteggiamento come una autodifesa dall'eventuale coinvolgimento
emotivo e dal conseguente burn out, non rendendosi conto che è
proprio il rapporto empatico con chi soffre l'àncora di salvezza di
alcuni pazienti che posti di fronte ad una diagnosi terribile,
rifiutano persino di curarsi affrettando l'ineluttabile fine.
I
viaggi della speranza, le cure alternative (per chi se li può
permettere al giorno d'oggi) sono anche conseguenza diretta di un
modo freddo, asettico e commerciale di gestire a vari livelli la
sanità. I sanitari umani ed emotivamente generosi che “sanno
mettersi in gioco” anche con malati difficili, sono purtroppo
l'eccezione e non la regola e per questo messi in continua difficoltà
dal sistema vigente e persino emarginati dagli stessi colleghi,
rappresentanti di una medicina supertecnologica che bada più ai
risultati statistici che alla qualità della vita dei pazienti.
Una
volta appresa la terribile diagnosi le reazioni possono essere
molteplici: disperazione (fino al suicidio), depressione, rabbia,
preoccupazione per la famiglia, paura della sofferenza fisica e della
eventuale mancanza di autonomia. Tutte reazioni influenzate anche dal
diverso comportamento degli eventuali familiari, se esistenti o
“presenti”.
Non
sempre un parente sa reagire in maniera adeguata alla malattia di un
proprio congiunto. Non si può mai essere sufficientemente preparati
psicologicamente ad una diagnosi terribile come un tumore maligno o
una malattia degenerativa invalidante o alle conseguenze gravi di
eventi ictali o di politraumi. Spesso il parente sottovaluta la
gravità della malattia o sopravvaluta le proprie capacità di aiuto,
non rendendosi quasi mai conto che un malato non può “ mai”
ragionare come una persona perfettamente sana, specie se si rende
conto della ridotta aspettanza di vita o della progressiva
limitazione della propria autonomia. E sia il malato che il parente
rifiutano spesso il supporto psicologico di figure professionali
appositamente preposte, senza contare il generale “isolamento” in
cui consciamente o inconsciamente il malato grave viene
inesorabilmente condannato dalla società. La malattia grave fa
ancora paura, perchè si ha paura generalmente della morte e della
invalidità. E non sempre le associazioni di volontariato riescono
efficacemente a colmare questo enorme vuoto esistenziale.
La
società moderna , supertecnologica e salutista, completamente
dissociata dalla realtà, non viene educata alla profonda conoscienza
della malattia , della limitazione dell'autonomia che ne consegue e
soprattutto della morte.
Ci
immaginiamo tutti eterni e biologicamente perfetti, non considerando
che iniziamo a morire fin dal primo giorno della nostra vita e che
come qualsiasi apparecchiatura supertecnologica possiamo “romperci”
e non funzionare più.
La
scienza studia il segreto della eterna giovinezza, ma spesso
dimentica che un cervello perfettamente funzionante anche in tarda
età può coesistere con un corpo devastato da malattie invalidanti e
viceversa il corpo in ottime condizioni di una persona anziana può
coesistere con un cervello completamente sovvertito da malattie
degenerative che impediscono una normale e serena vita di relazione.
Più
che studiare come prolungare ad ogni costo la sopravvivenza degli
essere umani sarebbe più opportuno migliorare in ogni senso, fisico,
psicologico, sociale ed economico, la qualità della vita in senso
lato, qualsiasi sia la sua durata.
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