Diversi
sono i comportamenti possibili quando un malato si rende conto
dell'ineluttabilità di una fine prossima.
Alcuni
si disperano per i più svariati motivi: paura della morte (in realtà
paura della sofferenza fisica in concomitanza del trapasso), dolore
per il distacco dagli affetti di una vita, preoccupazione sul destino
dei propri familiari specie se troppo giovani o non indipendenti
economicamente.
Altri
cercano di “godersi la vita “ il più possibile, magari ( se le
possibilità economiche lo permettono) facendo un viaggio, l'ultimo
con la persona amata o con la famiglia al completo. Altri ancora
cercano di riallacciare legami affettivi precedentemente logorati.
Altri
ancora preferiscono un progressivo isolamento, quasi una preparazione
interiore al distacco definitivo dal mondo. Riordinano
meticolosamente le loro cose, rievocando i ricordi di tutta una vita,
predispongono tutto quanto possa servire anche successivamente alla
loro dipartita.
Naturalmente
ciò è possibile fin quando è preservata almeno per un poco la
propria autonomia.
Nel
caso di persone gravemente invalidate e molto sofferenti tutto ciò è
impossibile, costretti ad un forzato allettamento e letteralmente a
subire tutto e tutti passivamente. Curanti formali e frettolosi (non
solo per esigenze lavorative ma anche incredibilmente per paura della
morte), infermieri non sempre amorevoli, energici e sbrigativi,
personale addetto alle pulizie (nosocomiali o, se esistenti
,domestici) a volte eccessivamente rigido e distaccato. Tutto ciò
contribuisce ad aumentare nel povero moribondo, se ancora cosciente,
la propria angoscia, il proprio senso di solitudine esistenziale di
fronte alla morte, anche in presenza di parenti.
A
proposito di parenti, anche in questo caso ne esistono diverse
tipologie.
Vi
sono quelli “presenti” nel vero senso del termine, coinvolti fin
dall'inizio dalla malattia del loro congiunto, operosi, responsabili
e amorevoli , disposti ad “accompagnare” fino alla fine
soffocando la loro disperazione . Ma purtroppo sono sempre più rari.
Vi
sono quelli presenti solo per salvare le apparenze, desiderosi in
realtà di una rapida conclusione della “ loro” fatica
assistenziale, che a volte mascherano il loro disinteresse affettivo
nei confronti di chi muore con una ossessiva ricerca di eventuali
carenze assistenziali per nascondere le proprie colpevoli carenze
affettive.
Infine,
triste a chi capita, vi sono i parenti completamente assenti, giudici
inesorabili o colpevoli imperdonabili pure in punto di morte , a
seconda delle eventuali faide familiari.
Non
ci sono istruzioni per l'uso da offrire a chi muore. Certo, la
saggezza e la cultura darebbero la consapevolezza che in realtà si
inizia a morire fin dal primo giorno di vita: l'imperfettibilità del
corpo umano sarebbe già da sola sufficiente a spiegare le malattie e
la morte. La speranza della cessazione di qualsiasi sofferenza
(fisica e morale) potrebbe infondere serenità a chi se ne stà
andando, anche a chi è attaccato morbosamente alla vita e non ha
alcun credo religioso. La disperazione (comprensibilissima) dei
parenti rende paradossalmente più difficile e sofferto il trapasso
-distacco , proprio perchè irreversibile.
E
dopo la morte del congiunto non è permesso neanche concentrarsi sul
ricordo della persona scomparsa. Troppe incombenze: vestizione,
onoranze funebri, sepoltura con relative spese (sempre fin troppo
onerose),il commiato di parenti e amici,risoluzione di eventuali
problemi economici per la sopravivenza, tutte quante sviliscono il
dolore, se presente, del distacco.
Solo
dopo l'assolvimento di questi compiti il parente affezionato può
riprendere coscientemente a soffrire e a rendersi veramente conto
dell'assenza definitiva della persona amata. E l'elaborazione del
lutto non è sempre facile, a volte è finanche impossibile per tutta
la vita.
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