Riposa in pace amore mio

mercoledì 25 marzo 2015

Accettare, accettarsi

Accettare una grave malattia o disabilità, elaborare il lutto della perdita della propria vita di prima, normale, accettare sé stessi ed una vita nuova, diversa e non certo migliore. Accettare come rassegnarsi al proprio ineluttabile destino.
Riconoscere che non esiste più una vita “normale” (per alcuni non è mai esistita) e ci si trova in una situazione di dipendenza fisica e psicologica dagli altri.
Tutti si sentono in dovere di dire qualcosa: “ Fatti forza, devi accettarlo, è la volontà di Dio, pensa a quelli che stanno peggio di te, ci sono tante altre cose belle da fare nella vita, in fondo sei ancora vivo, respiri, hai un cervello che funziona”. Ma è proprio la capacità di ragionamento a rendere difficile l'accettazione del proprio stato, della perdita della propria autonomia e dignità o di una prospettiva di vita, specialmente se fino al momento di ammalarsi la vita di prima era molto gratificante sotto ogni aspetto. E purtroppo ben pochi hanno la capacità di saper ascoltare davvero chi soffre, che pian piano si rinchiude in se stesso.
La totale o parziale dipendenza dagli altri negli spostamenti, pulizie personali, vestizione, alimentazione, la perdita del lavoro con conseguente perdita della propria indipendenza economica che consenta di attingere nel privato fonti adeguate di aiuto (assistenza medica, infermieristica, fisioterapica, personale, riservati ormai solo a pochi privilegiati), che sopperiscano almeno in parte alle enormi carenze del pubblico (non sufficientemente colmate dalle organizzazioni di volontariato), i costi elevati di tutti gli ausili sanitari, compresi quelli atti all' abbattimento delle barriere architettoniche, completano il tragico quadro.
E' veramente molto difficile accettare la propria malattia o disabilità se dal punto di vista pratico essa è complicata da continui ostacoli, sovente insormontabili.
Anche la fede, che potrebbe rappresentare un valido aiuto nel processo di accettazione della propria sventura, non permette di raggiungere sempre adeguate certezze nella vita di coloro che per il resto non ne hanno più nessuna.
E non sempre le figure religiose che a volte si avvicendano al capezzale di chi è molto provato dalla propria condizione riescono ad infondere coraggio o serenità. Non tutti sono disposti ad accettare, nella imperfezione della malattia, di essere stati creati ad immagine e somiglianza di Dio, sinonimo di perfezione, ad accettare la malattia o la disabilità come prova, a concepire la sofferenza (specialmente se si è fin troppo giovani) come elemento di purificazione e di salvezza della intera umanità, a credere in un aldilà privo di sofferenza in cui il proprio corpo devastato risusciterà intatto e soprattutto sano.
Accorgersi giorno dopo giorno della progressione della propria malattia, in cui si accumulano più sconfitte nella propria quotidianità che piccole vittorie, è qualcosa di indicibilmente devastante e nessuno sfogo di rabbia o di pianto potrà esprimere cosa realmente si prova a chi, anche con tutto l'amore e la sensibilità e comprensione possibili, vive accanto ad un malato grave.
E questa assente o incompleta comprensione l'uno dell'altro erge un muro invisibile di incompatibilità che si esprime con una malsopportazione reciproca, malcelata da una parte con il senso del dovere ( o autoconvinzione all'amore o salvaguardia delle apparenze) , dall'altra dalla necessità assoluta di essere aiutato.
In questo marasma esistenziale, di disperazione, di buio assoluto esistono barlumi di speranza e di attaccamento alla vita, anche se non sempre sufficienti.
Soffermarsi a guardare un tramonto o le bellezze che la natura offre continuamente, leggere, ascoltare musica, comunicare tramite i social networks, adottare un animale cui affezionarsi e di cui prendersi cura sono forme alternative di attaccamento alla vita, non sempre riconosciute da chi è sano.
C'è un limite del tutto individuale tra il sopportabile e l'insopportabile per ciò che riguarda il dolore, la sofferenza e la perdita della dignità e non tutti sono disposti a pagare il medesimo prezzo pur di rimanere in vita.
Vivere non è soltanto mantenere una attività respiratoria (anche artificiale) o cardiaca. Vivere è pensare, comunicare, agire, relazionarsi con il mondo esterno. E non tutti sono disposti a rinunciare ad una di queste espressioni di vita pur di esistere. Ciò va accettato a prescindere dalle proprie convinzioni filosofiche e religiose e va assolutamente rispettato da una comunità che si voglia definire “civile”.
E la rinuncia alle cure poposte in assenza di una dimostrata efficacia, va ugualmente rispettata.
Scelte estreme ( come ad esempio l'eutanasia “attiva”) dovrebbero essere sempre considerate in singoli casi solo come unica alternativa ad una irrisolvibile sofferenza da malattia assolutamente priva di prospettive di guarigione. Anch' esse dovrebbero essere rispettate e non stigmatizzate o peggio perseguite, come accade purtroppo ancora oggi.


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